Nel lessico siciliano di una volta, c’era un modo tutto particolare nel rivolgersi ai bambini.
Intanto il bambino (‘u picciriddu), si chiamava “’u vavà”, per rimproverarlo si usava dire: “ti dugnu tetè (ti do botte)”, le scarpette erano “i pepè”, se cadeva aveva “’a bbubù”, se veniva allattato si “pigghiava ‘a nennè”, quando andava a dormire faceva “a vovò”. Erano tutte parole delicate, usate per avvicinare il bambino a dei suoni semplici, efficaci e poetici.